domenica 25 ottobre 2009

Il traguardo...

Oggi, a riconferma di quanto sostengo da giorni, provvederò a seguire la vittoria dell'imperfezione e del delirio mangiando una cioccolata con la panna non appena arrivo in centro noncurante del fatto che domani ho tre ore di allenamento e della lotta per tornare in forma velocemente per il volley. Lo farò e domattina calcolerò appositamente di arrivare in ritardo per asfaltare i pensieri di chi crede che io non possa farlo e oltre a ciò provvederò a rispondere male a due/tre clienti per fargli capire che non sono al loro servizio quando vogliono.
Poi piangerò perchè non è il mio carattere. Ma non importa. Devo imparare ad amarmi imperfetta e a non flagellarmi ogni qualvolta sbaglio. Questo è il prossimo traguardo comportamentale da raggiungere...per la mia salute, solo per lei.

sabato 24 ottobre 2009

L'errore

Sono in ritardo. Devo tornare a casa dei miei, andare dall'estetista. Devo rifare il letto, devo farmi la doccia, truccarmi e vestirmi e rifarmi da sola le unghie delle mani. Sono qui, con il caffè a guardare lo schermo e ascoltare i T-rex chissà poi perchè. "I love to boogie" Come se del ritardo non mi interessasse, ste eterna puntuale con gli appuntamenti della sua vita. Mi sono posta un obiettivo: cercare di apprezzare l'imperfezione delle cose senza sempre dover correre a raggiungere il meglio, il massimo. La precisione.
Sono umana, non un robot.
Abbiate pazienza, voglio sbagliare MOLTO anch'io.

venerdì 23 ottobre 2009

Love Song For A Vampire

Deflagra in un suono spaventevole l’inizio di in your room mentre il sangue cola dalle dita mangiucchiate e la necessità di compensare questo dolore interiore con altrettanto dolore fisico viene interrotta da sprazzi di note, urlanti, gracchianti funeree nenie. M’accorgo di non aver abbandonato il masochismo che sonoramente esplode ad ogni attimo in cui non controllo il mio es che strasborda dalla pareti dell’anima e diventa un problema da gestire per le mille necessità che porta con se. Tra le quali scrivere. Ascoltare i depeche mode. (S)venire. Annullare tutti pensieri che non siano incipriati. Appoggio la mia mano sulla fronte in attesa di sentire uscire qualcosa: uno sprazzo di intelligenza, una umidissima frazione di secondo che mi faccio capire che non ho frigidità d’intelletto ma fragilità di pensiero. Crepitano sotto di me i pezzi di vetro che il mio amore mi ha regalato per tagliarmi meglio mentre un piatto di porcellana si muove sul tavolo. Ed inizia behind the wheel per mettermi paura di parole. Cala il silenzio perché nulla al confronto può essere proferito. Ho solo tanta voglia di scriverci su, come sapevo fare e forse non so più.

domenica 18 ottobre 2009

morire - cccp

La morte è insopportabile per chi non riesce a vivere...

Non ho mai avuto problemi io. A scrivere intendo. Di solito dalla penna o dalla tastiera le parole escono velocemente. Oggi invece di fronte a una pagina bianca di word sulla quale devo scrivere la presentazione della mia tesi v'è solo pietra e silenzio. Come se quasi 80 pagine non si potessero riassumere in poche misere righe o in pochi miseri dieci minuti di discussione.
La leggo e la rileggo e quasi mi sembra di non aver fatto un buon lavoro, che non ci sia niente da dire che le prossime settimane che mi aspettano siano solo paura.
E tanta incoscienza dentro il basso ventre....

sabato 17 ottobre 2009

Me, myself and I

Ci siamo si. E’ nel buio di questo bellissimo autunno che avanza che i miei occhi verdi iniziano a intravedere la luce in una tenebra che dura da anni. Probabilmente è l’amore. Probabilmente è la fine dell’università tra poco meno di un mese, probabilmente è l’aver iniziato a fare sport. Probabilmente è che tutto quello che mi capita viene amplificato in una sorta di cassa rullante che fa spavento e che armonizza ogni movimento verso l’unico che riesco a fare con certezza: addormentarmi. Come se i dieci piani della giornata di cristo della passione fossero passati. Come se anche tutti i sogni di gloria anch’essi si fossero dissolti in una nuvola di vapore del bagno piccolo nel quale lavo via i peccati ogni sera. E le unghie blu puffo faticano a non scrostarsi dopo ogni allenamento nel quale corro, salto, mi butto, mi ferisco cercando di ritrovare una condizione che al momento non c’è sebbene almeno due maledetti sbalzi del corpo siano già andati via a suon di tre settimane di grandi fatiche e rinunce.
Incrocio le mani come fosse una preghiera e gli anni ottanta invadono casa: Cure ovunque, stivaletti mezzi gamba, guanti di pizzo che riappaiono come se non fossero mai spariti e viso pallido a riconferma che l’odio per l’abbronzatura prende sempre il sopravvento e che, forse, la pelle di porcellana vince sempre. Mi giro alla destra e tra l’asse da stiro e l’aspirapolvere giacciono addormentate le scarpe. Trenta paia forse. E non bastano mai. Perché non bastano mai? Sono un prolungamento dell’ego. Una necessità per farsi (ri) conoscere quando camminando su sassi scomposti tu sei sempre quella più indietro e ti piace così. Provo quasi gusto spesso a sentirmi così vicina a slogare la caviglia per restare in bilico su quegli oggetti di impavida bellezza. E anche tutte le bugie vengono schiacciate sotto gli stiletti come se si potesse cancellare tutto anche la prigionia a cui vai incontro se continui a mentire. Ma non mi fa paura e il non temere è ciò che maggiormente mi spaventa. Quasi come se l’incoscienza di “a forest” mi facesse brancolare nel buio nel ricordo di quando a ventidue anni ballavo da sola la prima canzone in mezzo alla pista del new age a Roncade con la gonna lunga nera, gli anfibi, la maglietta nera comprata il giorno prima e una calza a rete al posto dei guanti. Una sorta di esibizionismo pauroso. Paura degli altri ma ansia di farsi vedere, conoscere, amare per quello che si è e non per i chili di cipria che ancor oggi s’abbandonano sul mio viso ogni mattina. Quando mi guardavo allo specchio svestita dell’anima per capire cosa in me non andasse, cosa io dovessi cambiare per essere perfetta. Quanto dovessi abbandonare di me per diventare un animale da amare, un essere da desiderare. Quando ho dipinto il piede con un tatuaggio indelebile per segnare che si, mi sentivo dark, volevo essere dark, volevo che quel mondo mi appartenesse mi amasse, mi abbracciasse, mia avvolgesse. Quando mi ostinavo a dover essere comunque triste. A dover comunque non sorridere mai e non farmi toccare mai. Quando il paradosso dei bustini dei guanti lunghi e degli stivali con le catene era per dire “no, lasciatemi stare, non toccatemi, voglio stare sola, mi odio”. Era comunque l’innato desiderio di essere puttana che ti porta a mostrarti per come sei anche quando dentro di te vuoi essere diversamente e il canto degli angeli ti cade sulla testa. Il matrimonio di mia sorella, un ragazzo pallido, magro ed efebico che oggi nemmeno ricorda la mia esistenza e il silenzio di quei sabato pomeriggio, prima delle partite, nei quali chiusa in casa guardavo il grigio dalla finestra e pensavo a quando, la sera, mi sarei spogliata di ginocchiere e scarpe per rivestire i panni che meglio sentivo. Abbozzata d’un nero tanto bramato voglio ricordarmi così: una ragazzetta con la lacrima, un pierrot con le occhiaie. Per dimenticare la donna che invece oggi c’è: bionda e impegnata, azzurra e bugiarda. Come si può ritrovare un briciolo di quella ingenua certezza che il mondo era nero? Come posso ritrovarla?