Ci siamo si. E’ nel buio di questo bellissimo autunno che avanza che i miei occhi verdi iniziano a intravedere la luce in una tenebra che dura da anni. Probabilmente è l’amore. Probabilmente è la fine dell’università tra poco meno di un mese, probabilmente è l’aver iniziato a fare sport. Probabilmente è che tutto quello che mi capita viene amplificato in una sorta di cassa rullante che fa spavento e che armonizza ogni movimento verso l’unico che riesco a fare con certezza: addormentarmi. Come se i dieci piani della giornata di cristo della passione fossero passati. Come se anche tutti i sogni di gloria anch’essi si fossero dissolti in una nuvola di vapore del bagno piccolo nel quale lavo via i peccati ogni sera. E le unghie blu puffo faticano a non scrostarsi dopo ogni allenamento nel quale corro, salto, mi butto, mi ferisco cercando di ritrovare una condizione che al momento non c’è sebbene almeno due maledetti sbalzi del corpo siano già andati via a suon di tre settimane di grandi fatiche e rinunce.
Incrocio le mani come fosse una preghiera e gli anni ottanta invadono casa: Cure ovunque, stivaletti mezzi gamba, guanti di pizzo che riappaiono come se non fossero mai spariti e viso pallido a riconferma che l’odio per l’abbronzatura prende sempre il sopravvento e che, forse, la pelle di porcellana vince sempre. Mi giro alla destra e tra l’asse da stiro e l’aspirapolvere giacciono addormentate le scarpe. Trenta paia forse. E non bastano mai. Perché non bastano mai? Sono un prolungamento dell’ego. Una necessità per farsi (ri) conoscere quando camminando su sassi scomposti tu sei sempre quella più indietro e ti piace così. Provo quasi gusto spesso a sentirmi così vicina a slogare la caviglia per restare in bilico su quegli oggetti di impavida bellezza. E anche tutte le bugie vengono schiacciate sotto gli stiletti come se si potesse cancellare tutto anche la prigionia a cui vai incontro se continui a mentire. Ma non mi fa paura e il non temere è ciò che maggiormente mi spaventa. Quasi come se l’incoscienza di “a forest” mi facesse brancolare nel buio nel ricordo di quando a ventidue anni ballavo da sola la prima canzone in mezzo alla pista del new age a Roncade con la gonna lunga nera, gli anfibi, la maglietta nera comprata il giorno prima e una calza a rete al posto dei guanti. Una sorta di esibizionismo pauroso. Paura degli altri ma ansia di farsi vedere, conoscere, amare per quello che si è e non per i chili di cipria che ancor oggi s’abbandonano sul mio viso ogni mattina. Quando mi guardavo allo specchio svestita dell’anima per capire cosa in me non andasse, cosa io dovessi cambiare per essere perfetta. Quanto dovessi abbandonare di me per diventare un animale da amare, un essere da desiderare. Quando ho dipinto il piede con un tatuaggio indelebile per segnare che si, mi sentivo dark, volevo essere dark, volevo che quel mondo mi appartenesse mi amasse, mi abbracciasse, mia avvolgesse. Quando mi ostinavo a dover essere comunque triste. A dover comunque non sorridere mai e non farmi toccare mai. Quando il paradosso dei bustini dei guanti lunghi e degli stivali con le catene era per dire “no, lasciatemi stare, non toccatemi, voglio stare sola, mi odio”. Era comunque l’innato desiderio di essere puttana che ti porta a mostrarti per come sei anche quando dentro di te vuoi essere diversamente e il canto degli angeli ti cade sulla testa. Il matrimonio di mia sorella, un ragazzo pallido, magro ed efebico che oggi nemmeno ricorda la mia esistenza e il silenzio di quei sabato pomeriggio, prima delle partite, nei quali chiusa in casa guardavo il grigio dalla finestra e pensavo a quando, la sera, mi sarei spogliata di ginocchiere e scarpe per rivestire i panni che meglio sentivo. Abbozzata d’un nero tanto bramato voglio ricordarmi così: una ragazzetta con la lacrima, un pierrot con le occhiaie. Per dimenticare la donna che invece oggi c’è: bionda e impegnata, azzurra e bugiarda. Come si può ritrovare un briciolo di quella ingenua certezza che il mondo era nero? Come posso ritrovarla?
Incrocio le mani come fosse una preghiera e gli anni ottanta invadono casa: Cure ovunque, stivaletti mezzi gamba, guanti di pizzo che riappaiono come se non fossero mai spariti e viso pallido a riconferma che l’odio per l’abbronzatura prende sempre il sopravvento e che, forse, la pelle di porcellana vince sempre. Mi giro alla destra e tra l’asse da stiro e l’aspirapolvere giacciono addormentate le scarpe. Trenta paia forse. E non bastano mai. Perché non bastano mai? Sono un prolungamento dell’ego. Una necessità per farsi (ri) conoscere quando camminando su sassi scomposti tu sei sempre quella più indietro e ti piace così. Provo quasi gusto spesso a sentirmi così vicina a slogare la caviglia per restare in bilico su quegli oggetti di impavida bellezza. E anche tutte le bugie vengono schiacciate sotto gli stiletti come se si potesse cancellare tutto anche la prigionia a cui vai incontro se continui a mentire. Ma non mi fa paura e il non temere è ciò che maggiormente mi spaventa. Quasi come se l’incoscienza di “a forest” mi facesse brancolare nel buio nel ricordo di quando a ventidue anni ballavo da sola la prima canzone in mezzo alla pista del new age a Roncade con la gonna lunga nera, gli anfibi, la maglietta nera comprata il giorno prima e una calza a rete al posto dei guanti. Una sorta di esibizionismo pauroso. Paura degli altri ma ansia di farsi vedere, conoscere, amare per quello che si è e non per i chili di cipria che ancor oggi s’abbandonano sul mio viso ogni mattina. Quando mi guardavo allo specchio svestita dell’anima per capire cosa in me non andasse, cosa io dovessi cambiare per essere perfetta. Quanto dovessi abbandonare di me per diventare un animale da amare, un essere da desiderare. Quando ho dipinto il piede con un tatuaggio indelebile per segnare che si, mi sentivo dark, volevo essere dark, volevo che quel mondo mi appartenesse mi amasse, mi abbracciasse, mia avvolgesse. Quando mi ostinavo a dover essere comunque triste. A dover comunque non sorridere mai e non farmi toccare mai. Quando il paradosso dei bustini dei guanti lunghi e degli stivali con le catene era per dire “no, lasciatemi stare, non toccatemi, voglio stare sola, mi odio”. Era comunque l’innato desiderio di essere puttana che ti porta a mostrarti per come sei anche quando dentro di te vuoi essere diversamente e il canto degli angeli ti cade sulla testa. Il matrimonio di mia sorella, un ragazzo pallido, magro ed efebico che oggi nemmeno ricorda la mia esistenza e il silenzio di quei sabato pomeriggio, prima delle partite, nei quali chiusa in casa guardavo il grigio dalla finestra e pensavo a quando, la sera, mi sarei spogliata di ginocchiere e scarpe per rivestire i panni che meglio sentivo. Abbozzata d’un nero tanto bramato voglio ricordarmi così: una ragazzetta con la lacrima, un pierrot con le occhiaie. Per dimenticare la donna che invece oggi c’è: bionda e impegnata, azzurra e bugiarda. Come si può ritrovare un briciolo di quella ingenua certezza che il mondo era nero? Come posso ritrovarla?